La normativa sul requisito della cittadinanza italiana nel pubblico impiego
La legge in merito è alquanto frammentaria e complessa. Partiamo per punti. L’art. 51 della Costituzione stabilisce che tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere ai pubblici uffici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza. Qui non si parla esplicitamente di cittadinanza, ma solo di status di cittadino. Tuttavia il Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, all'articolo 2, indica fra i requisiti generali per l’ammissione agli impieghi quello del possesso della cittadinanza italiana.
I cittadini comunitari e il requisito della cittadinanza
Con l’ingresso dell’Italia nell'Unione Europea, e in virtù del principio della libera circolazione dei lavoratori nella Comunità, è sorto il problema se i “cittadini comunitari” potessero o meno accedere a posti pubblici anche in paesi diversi da quello d’origine. Sulla faccenda si è espressa la Corte di Giustizia Europea con sentenza del 17/12/80. Chiamata in causa per una disputa contro il Regno del Belgio proprio in merito ad una norma che richiedeva la cittadinanza belga per l’accesso a dei posti presso collettività o enti pubblici belgi, ha ritenuto che “una prassi del genere fosse incompatibile con le norme del diritto comunitario che garantiscono la libera circolazione dei lavoratori nell'ambito della Comunità”. Secondo la Commissione, la sola eccezione ammessa a tale principio è quella di cui all'art. 48, n. 4, del Trattato CEE, per gli «impieghi nella pubblica amministrazione», eccezione che va tuttavia “interpretata” nel senso che essa riguarda unicamente i posti che implicano la partecipazione effettiva dei loro titolari all'esercizio dei pubblici poteri.
In conclusione i cittadini comunitari possono partecipare a concorsi pubblici in uno dei paesi dell’Ue, ad eccezione di quei posti che in maniera diretta o indiretta implicano la partecipazione all'esercizio dei pubblici poteri ed alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche. La spiegazione è nel fatto che questi posti presuppongono da parte dei loro titolari l’esistenza di un rapporto particolare di solidarietà nei confronti dello Stato, “nonché la reciprocità di diritti e doveri che costituiscono il fondamento del vincolo di cittadinanza”.
I posti pubblici dove è richiesta la cittadinanza e quelli dove non è necessaria
Quali siano ce lo dice il Decreto del 7 febbraio 1994, n. 174- Regolamento recante norme sull'accesso dei cittadini degli Stati membri dell’Unione europea ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche -, che all'art 1 elenca i posti delle amministrazioni pubbliche dov'è richiesta la cittadinanza italiana:
- i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo;
- i posti con funzioni di vertice amministrativo delle strutture periferiche delle amministrazioni pubbliche dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, degli enti pubblici non economici, delle province e dei comuni nonché delle regioni e della Banca d’Italia;
- i posti dei magistrati ordinari, amministrativi, militari e contabili, nonché i posti degli avvocati e procuratori dello Stato;
- i posti dei ruoli civili e militari della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero degli affari esteri, del Ministero dell'interno, del Ministero di grazia e giustizia, del Ministero della difesa e del Ministero delle finanze, fatte salve le dovute eccezioni indicate dall'art. 16 della legge 28 febbraio 1987, n. 56.
I cittadini extracomunitari e il requisito della cittadinanza
La questione del requisito della cittadinanza per l’accesso al pubblico impiego nei confronti di cittadini extracomunitari residenti legalmente in Italia è tuttora aperta e, per il momento, non sembra esserci una soluzione normativa certa. Con la L. 39/1990, recante norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e di regolarizzazione dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato, al comma 3 dell’art. 9 viene descritta la possibilità, nel caso in cui il soggiorno fosse richiesto per motivi di lavoro, “di stipulare qualsiasi contratto di lavoro, ivi compreso quello di formazione e lavoro, secondo le norme in vigore per i lavoratori nazionali, escluso soltanto il pubblico impiego, salvo i casi di cui all’articolo 16 della l. 28 febbraio 1987, n. 56”. In seguito sono state emanate altre norme, come il decreto legislativo n. 286 del 1998, che all’articolo 2 (Diritti e doveri dello straniero) comma 3 “garantisce a tutti i lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti nel suo territorio e alle loro famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani”.
È su questo punto che sono sorti molte questioni.
Per alcuni queste norme hanno abrogato le precedenti che richiedevano obbligatoriamente la cittadinanza italiana, per altri invece il requisito è imprescindibile. La questione rimane aperta, e in attesa di una norma certa occorre richiamare la sentenza del TAR Veneto, n. 782 del 2004 che annulla il provvedimento di esclusione dalla graduatoria di una cittadina statunitense per mancanza della cittadinanza italiana o in uno dei Paesi della Comunità europea. Per il Tar “Pare irragionevole, ora, non estendere ai cittadini di altre nazioni l’accesso al pubblico impiego nella parte non preclusa ai cittadini comunitari, giustificandosi la restrizione dell’area dell’impiego pubblico accessibile ai soli cittadini nazionali in base ai medesimi principi”.
Riferimenti (Concorsi per cittadinanza):
- Accedi o registrati per poter commentare
Commenti